Silvio Pellico
1789 - 1854
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Le mie prigioni
1832
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Capo LX.
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A SERA venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl'inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino, per rompere la faccia al primo che mi s'appressasse.– Che fa ella? disse il soprintendente. Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d'irregolare.Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi [206] verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno m'ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.– Oh come arde! diss'egli al soprintendente. Si potesse almeno dargli un pagliericcio! –Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.– Qui tutto è rigore anche per me, diss'egli. Se non eseguisco alla lettera ciò ch'è prescritto, rischio d'essere sbalzato dal mio impiego. –Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso, ch'ei pensava tra sé: – S'io fossi soprintendente, non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s'intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: – Fa ch'io discerna pure negli altri qualche dote che loro m'affezioni; io accetto [207] tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch'io ami! deh, liberami dal tormento d'odiare i miei simili!.A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s'apre. È il caporale con due guardie, per la visita.– Dov'è il mio vecchio Schiller? diss'io con desiderio. Ei s'era fermato nel corridoio.– Son qua, son qua, rispose. –E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.– Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì! borbottava egli; pur troppo giovedì!– E che volete dire con ciò?– Che il medico non suol venire, se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani pur troppo non verrà.– Non v'inquietate per ciò.– Ch'io non m'inquieti, ch'io non m'inquieti! In tutta la città non si parla d'altro che dell'arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?– Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì? – [208]Il vecchio non disse altro; ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benchè mi facesse male, n'ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato, se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma, invece, le sorride, e s'estima beato. |